quiete dopo la tempesta

Questi mesi dopo la morte di papà sono stati strani.
Ho preferito non scrivere a riguardo, per capire quali momenti, a distanza di tempo, avrebbero lasciato il segno.

quiete dopo la tempesta

Era fine aprile, e mi stavo preparando per l’esame di storia dell’architettura. E’ un corso che ho seguito con Jacopo, come quasi tutti, essendo che siamo nello stesso scaglione alfabetico (lui si chiama, appunto, Jacopo Casadio). Qualche giorno prima dell’esame mio padre ha avuto una ricaduta. Il tutto è causato dai capricci della donatrice, che avrebbe dovuto donare il midollo molto prima, ma “non voleva rovinarsi le feste”. E così quando lo ha fatto era troppo tardi. Sono venuti anche mia madre e mio fratello dalla Sicilia per stare con lui gli ultimi giorni. Io non ero cosciente che fossero “gli ultimi giorni”, ma li ho spinti a venire a Pavia lo stesso. Mio padre ci teneva che io portassi il libro di storia e mi cercassi un angolo per studiare. Guardavo le persone ai primi stadi di leucemia. Un manager con la flebo della chemio attaccata mentre dava indicazioni su cosa fare in azienda, arrabbiato per i cattivi risultati, e ancora immerso nella vita mondana. Era come se in quell’ospedale ci fossero il passato, il presente, tutta la timeline della malattia, fino a quando l’unico tema diventa la fine della tua vita.
Papà, la sera, sembrava migliorato, grazie ad una trasfusione. Ho dovuto tornare a Milano per l’esame, ma la sera non ho studiato. Ho chiamato il mio amico bassista che, quando non trova parcheggio per ore, mi chiama per noia. Poi ho mandato un messaggio a papà, ma non ha risposto. Era tardi, infondo.
L’indomani il cd di Caparezza mi ha fatto compagnia fino all’aula. Tra l’altro ci ho messo un po’ a trovarla, perché non ricordavo che l’avevano spostata. Dopo l’esame, ho chiamato un po’ tutti per sapere come stava papà. Mia madre ha esordito con “Senti zio Nino, che deve dirti una cosa“. Mi pesa che mi abbia detto così. Quando mio zio mi ha detto che papà era morto, ho avuto un mancamento. Ero con Jacopo e un suo collega molto affezionato, Gabriele Cigolotti, ma Jacopo è riuscito a dire la parola sbagliata. Ha detto che “per ottimizzare” lui avrebbe cercato un’aula per studiare per l’esame successivo, mentre io rimanevo con Lele. Non riesco a dimenticare quelle parole.
I giorni seguenti sono stati tremendi. La madre superiora che insisteva che io e mio fratello vedessimo papà nella bara (la solita necrofilia cattolica mista a sadismo e rigore), cosa fortunatamente non successa, mio zio Pino freddo in aereo e incapace di comunicare, io che vado al funerale non vestendomi di nero, che poi è il mio colore di sempre. Avevo la maglietta blu elettrico della “Ellesse”. E infine una serie di persone che mi abbraccia in modo manierista senza neanche sapere chi sono (per loro noi siamo i figli di qualcuno, non siamo qualcuno).

Ricordo tanta solitudine nelle settimane in Sicilia. Preparavo l’esame di diritto, intensamente. Una sola volta ho riso con mia cugina, ma mio zio Nino ha pensato bene di rimproverarci per via di quello che avrebbe potuto pensare la gente. Sono felice di vivere a Milano lontano da questa ipocrisia.
Anche mia zia materna non è stata adeguata: ha aspettato che mia madre andasse via per dirmi che avrei dovuto interrompere i miei studi a Milano per starle vicino.
Insomma, alla fine a Milano ho fatto l’esame di diritto, è andato molto bene, e ho rivisto Jacopo.
Jacopo nei miei confronti sta cambiando. Sembra quasi mi corrisponda ma io non lo voglio, non dopo quello che ha fatto.
Continua a invitarmi, e a trovare scuse per fare qualcosa insieme. Non so se dipende dai capelli rosso fuoco che ho fatto pochi giorni dopo l’esame di diritto.
Comunque non lo voglio tra i piedi. E’ come se un dio sadico mi volesse dare quello che ho sempre desiderato ma in cambio di una cosa che desideravo ancora di più e non è avvenuta: la guarigione di papà

La quiete dopo la tempesta

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